Androni…

Gli androni e i corridoi dei palazzi fanno paura!

Tutto quel bianco, quegli angoli ciechi, quelle scale buie e deserte. L’eco dei passi, lo sbattere di porte lontane, il borbottio delle condutture e lo scricchiolio di chissà quale diavoleria fanno sobbalzare, spaventano, fanno temere l’arrivo di creature mostruose con artigli affilati e denti pronti a sbranarti.

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Il click del portone mi invita ad entrare. Spingo e muovo il primo passo. Una volta superata la soglia lascio andare la porta che rapidamente torna indietro sbattendo contro lo stipite. Un altro click mi segnala il blocco del meccanismo. Alla mia sinistra una scala scende verso il basso, solo i primi scalini sono illuminati dall’unica luce presente nell’androne; una piccola plafoniera, bianca. Gli altri, gradatamente, scompaiono nel buio. A fianco un ascensore, le porte chiuse. Un po’ più in là delle scale salgono verso l’alto. Dalla mia posizione vedo solo quattro scalini.

Premo il pulsante di chiamata dell’ascensore. Una luce rossa si accende. Sento gli ingranaggi prendere vita in un susseguirsi di tonfi, botti, rombi attutiti. Raggiunto il piano i rumori tacciono e la porta si apre. Salgo e premo il numero cinque. Le porte si chiudono e con un leggero strattone l’ascensore comincia a salire. È strano come non mi disturbi, nonostante ne abbia piena coscienza, avere sotto di me un pozzo sempre più profondo. Al quinto piano l’ascensore si ferma e le porte si aprono. Un rettangolo di pallida luce prova a contrastare il buio del corridoio. Muovere il primo passo è un atto di fiducia, chiunque potrebbe nascondersi ai lati, attendendo il momento giusto per aggredirmi. Il corridoio è vuoto, una rapida occhiata è sufficiente a confortarmi. Premo l’interruttore e una luce gialla, stanca, illumina pareti spoglie e porte blindate. Ermeticamente chiuse, per scoraggiare i ladri, tagliano fuori, isolano, escludono. Quello che è dentro gli appartamenti rimane dentro, non contaminato da quello che esiste fuori, sul pianerottolo, sulle scale, nell’ascensore.

Chiacchiere, sorrisi, risate, baci, carezze, discussioni, litigi, urla e pianti rimangono confinati all’interno; niente viene vissuto sul pianerottolo o sulle scale. Solo un’ordinaria educazione, quando capita; un buongiorno, un ciao, un come va, detti per convenzione e con poco interesse.

E per la maggior parte del tempo, pianerottoli e scale, rimangono silenziosi e vuoti. Abbandonati luoghi di passaggio, utilizzati solo come strumento per spostarsi da un posto ad un altro, senza la dignità di un mezzo di trasporto, di una mulattiera, di un valico di montagna, di un porto o una stazione. Solo un mezzo, da usare e dimenticare.

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Volto la testa alla ricerca della mia destinazione, prendo una direzione osservando le targhette sulle porte e sui campanelli. Trovo la porta, spingo il pulsante. Sento un leggero trillo, un suono attutito, non fastidioso. Attendo qualche attimo, immobile come una statua davanti alla porta chiusa. Il tempo sembra essersi fermato. La luce stanca si spegne, il corridoio piomba nell’oscurità. Alcune macchie arancioni, le targhette dei campanelli, sporcano il nero. Mi scopro a spostare la testa seguendo quella scia di luce. Premo il pulsante, il trillo attutito si fa nuovamente sentire.

Rumore di passi e di maniglia abbassata. La porta inizia ad aprirsi. Uno spicchio di luce, sempre più ampio, ricaccia indietro l’oscurità.

Entro salutato da un radioso sorriso; dentro la vita, sorrisi e risate.

La porta si chiude dietro di me…

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